Dopo il 13 febbraio
di Emma Baeri

Pensieri per la riunione indetta da “Gli altri” attorno a “Queer” del 21 gennaio
Roma, Casa Internazionale delle donne, 23 febbraio 2011
( e per l’incontro catanese alla Libreria Voltapagina del 19 febbraio)

 

 

 

Non ho firmato gli appelli ma sono andata alla manifestazione, ho cercato di tenere insieme il dissenso dalla sostanza politica che quegli appelli esprimevano e uno sguardo realistico sulla mobilitazione civile che ne è derivata.
Ho ripassato le ragioni di queste mie scelte.
Gli appelli: il primo, insopportabile per lo sguardo antropologico su tutte le donne, scorporate dai contesti che ne determinano storicamente e politicamente la differenza, un appello che riconduce l’esperienza delle donne soprattutto alla sfera familiare, con l’aggravante di distinguere le buone dalle cattive; il secondo, che pur correggendo il tiro su familismo e moralismo, ancora una volta non nomina con chiarezza quei contesti, ovvero la tradizione democratica e di sinistra nella quale si inscrive – ma ovviamente non si esaurisce -  la complessa esperienza politica del femminismo italiano, almeno quello degli anni Settanta, quello che ha avuto a cuore il nesso tra liberazione ed emancipazione, ovvero la messa a fuoco del rapporto tra i sessi come si è strutturato nel passato e nel presente; questa opacità ha consentito una trasversalità nelle firme che mi ha messo a disagio. Mi sono chiesta: cosa succederebbe se si passasse dalle petizioni di principio alla prassi legislativa? Quante di quelle firme cadrebbero?
Poi, la piazza: mi è piaciuto il lungo fiume chiacchierante di un popolo che voleva essere civile, almeno in quel momento, con qualche speranza per il futuro, penso. Un popolo misto, ricco di colori di genere ed età, che si è mosso al richiamo di un gruppo di donne: questo va detto. Come va detto della ricchezza delle parole e delle scritture che hanno accompagnato quell’evento sin dal suo concepimento: parole alte e quotidiane, complicate e semplici, ma parole, dette, scritte, un bisogno esploso come altre volte negli ultimi trent’anni, incorporando, com’è ovvio, un diverso sentimento del tempo che passa, delle trame amicali sfilacciate, della politica che ci manca, della crisi attorno a noi, del degrado di un modello di governo maschile patriarcale del quale ormai anche molti uomini sono consapevoli e accusano il disagio: una piccola cerniera di cittadinanza ha cigolato, dopo tanto tempo, e vi ho sentito uno stridore nuovo.

Oggi è dopo: cosa desidero, adesso? Desiderare è per me un punto di partenza necessario per cominciare a pensare; ma prima ancora che il desiderio prendesse forma, ho avvertito una preoccupazione montante, perché tra qua e là, tra nord e sud, il dissenso politico tra donne - vizio antico: organico? ereditato? - ha cominciato a riemergere definendo giudizi, decretando esclusioni: non va bene.
Nei giorni precedenti, e in quelli seguenti il 13, con alcune amiche ho scambiato pensieri, e attraverso questi scambi ho capito di me più di quanto da sola non sapessi. Sperimento quotidianamente su me stessa la tenacia di una passione giacobina per le idee belle e pure, bandiere al vento della mia generazione politica sulle quali il femminismo ha aggiunto colori: per questo non ho firmato. Ma quelle alcune mi dicevano: “guarda la realtà come si muove, non perdere questo sguardo”, e avevano ragione. Leggendo le dichiarazioni che si ammucchiavano sul mio tavolo, poi guardando quella folla multicolore, ho immaginato tutte le contraddizioni che essa racchiudeva, ma ho voluto in quel lungo momento sentire soprattutto la sua evidente voglia di reagire, la sua indignazione civile, il suo bisogno di udire “nuove parole e nuovi metodi”, un’esperienza corporea, emotiva, che mi ha restituito un rapporto con la realtà che il mio splendido giacobinismo mi celava. E quando alla fine il corteo si è allargato liberamente in due piazze non ho sentito il bisogno di microfoni aperti; al contrario, ho temuto che la ritualità della parola gridata potesse – almeno qui a Catania – riproporre vecchie parole d’ordine, soffocando il sonoro politico di migliaia di persone che chiacchieravano un po’ di tutto, sorridevano per le amicizie ritrovate, e si chiedevano se quelle nubi che si stavano aprendo avrebbero consentito di andare al mare dopo, forse, o a pranzo insieme.
Ciò detto, la questione che oggi sento urgente è di metodo e di merito. Per cominciare, il metodo: posto che ci sono da sempre nella nostra storia politica diverse pratiche femministe e femminili, perché dobbiamo metterci nella trappola di un conflitto sterile tra noi? Ho sempre trovato insopportabile - materno irriducibile? - quel detto che dice di non dover buttare il bambino con l’acqua sporca. Ebbene, io non voglio buttare neanche l’acqua sporca, ci serve guardare nelle sue torbidezze, ci serve per capire i nostri cattivi sentimenti, per non farcene travolgere, rendendo fecondi germi, batteri e microbi: le cose vive nascono anche da qui. Perché non distinguere quindi l’irriducibile dal riducibile, la storia di ciascuna o di ciascun gruppo dalla possibilità di intrecciarne una parte con quella delle altre? Insomma, penso che se continuiamo a discutere misurando le diversità tra noi e divaricandole fino a renderle incomunicabili, perderemo di vista le ragioni politiche della nostra differenza, la sua funzione trasgressiva e ri-generatrice: dobbiamo inventarci altro. Pertanto: alcune pensano di fare una Costituente di donne? Evviva! Se lo desiderano, se ci credono, che vadano avanti con tutta la loro passione: le altre le incoraggeranno, le apprezzeranno, ma faranno altro, se altro vorranno fare. C’è chi ha detto che gli appelli erano discutibili e la piazza impraticabile? Bene, va bene: le ragioni di chi firma o non firma, di chi sta casa o va in piazza sono tutte da ascoltare, la loro inclusione in uno spazio politico conflittuale ma condiviso è segno di forza, di intelligenza nuova, è ricchezza spendibile per tutte e tutti. C’è chi sente l’esigenza di

far rinascere forme di autocoscienza, di ridire a voce alta parole politiche sulla sessualità, alla luce dei silenzi del presente e della rioccupazione maschile dello spazio pubblico su questi temi? Bene! Alcune ritengono imprescindibile e vincente la relazione significativa tra donne, la pratica della disparità, l’affermazione di un simbolico femminile? Bene! Se questo è il loro desiderio, che diffondano la buona novella, tutte l’ascolteremo con rispetto, argomentando perplessità, se è il caso. Altre ritengono più urgente porre la questione dei diritti e della cittadinanza, parlare di quote liberamente, senza timore di essere giudicate ottusamente emancipazioniste? Che procedano: tutte ne saremo felici e lo diremo in giro. E così per ogni questione, passione, progetto che dovesse prendere la forma di un desiderio di donna, purché il fondale di questa scena sia – lo dico? – la Costituzione, parola oggi tutt’altro che obsoleta, ma concretissimo territorio politico, civile, sociale, culturale, istituzionale, simbolico, da difendere a oltranza: a tutt’oggi, non ci è dato contesto migliore per affermare le ragioni concrete di esistenze più giuste, per tutte e tutti.
Riprendo il filo del mio ragionare. Se c’è una cosa che ormai non sopporto più è la riproposizione della litigiosità maschile nei rapporti politici tra donne, una logica che spesso cela le ragioni vere di un conflitto, nel momento stesso in cui  assume il conflitto come forma esclusiva della politica. Se è vero come è vero che l’esperienza biostorica delle donne precede e segue la nascita delle forme della politica maschile, ma pure le attraversa, e vi risiede a volte, ma senza coincidere mai totalmente con esse ( pena una sofferenza più o meno consapevole), occorre fare un profondo respiro e buttare fuori aria nuova, dalle nostre viscere, direi. E guardare oltre partendo da noi: la “solita” trasgressione femminista, non si scappa. A pensarci, la forza di un’idea costituente inventata dalle donne dovrebbe partire da questo grande respiro e da questo sguardo situato ma lungi mirante.  
Nel merito: perché non rendere porose “le mura” di questa Costituente? Perché non farvi entrare e uscire liberamente autocoscienza, sessualità, affidamento, diritti, pari opportunità, lavoro, cultura, differenza, diversità, disparità, uguaglianza….. libertà e liberazione? Perché non avviare una pratica permanente, periferica ma nazionale (e poi anche internazionale), in qualche modo formalizzata, di donne che portano al centro le pratiche e le acquisizioni di migliaia di gruppi informali di donne disseminati nel territorio? Negli anni Settanta, questo policentrismo autonomo ma comunicante fu la grande ricchezza del movimento femminista. Adesso potrebbe essere riproposto alla luce di quelle e di quello che siamo diventate. C’è forse un’idea di governo-ombra in questa proposta. Perché no? O forse  un’agorà di donne, aperta. Magari scopriremo un desiderio non ancora detto, ma dicibile, e poi chissà…..
Se fossi venuta a Roma avrei parlato di queste cose, più o meno.



Catania, 18 febbraio 2011